Cantina Santadi e Carignano del Sulcis nel Progetto Enotria

Reati informatici, firmato il protocollo d’intesa CCIAA – Polizia di Stato a supporto delle aziende
3 Luglio 2024
Le PMI sarde nell’area del Mediterraneo: dalle esperienze del passato alle strategie di sviluppo territoriale
11 Settembre 2024
Reati informatici, firmato il protocollo d’intesa CCIAA – Polizia di Stato a supporto delle aziende
3 Luglio 2024
Le PMI sarde nell’area del Mediterraneo: dalle esperienze del passato alle strategie di sviluppo territoriale
11 Settembre 2024
Mostra tutto

Cantina Santadi e Carignano del Sulcis nel Progetto Enotria

Si è svolto il 14 luglio 2024, presso la Cantina di Santadi il Convegno “Terroir Sulcis – Il Sulcis festeggia il suo re, il Carignano”.

Durante i lavori si è particolarmente distinto l’intervento sul “Progetto Enotria” di Italo Bussa, ex dirigente del settore credito alle imprese agroalimentari dell’Assessorato regionale dell’Agricoltura e che oggi svolge la sua attività di Giornalista e direttore della Rivista “Quaderni Bolotanesi“.

Il Progetto Enotria

Mentre lasciamo che siano gli esperti e i promotori a illustrare un programma di estremo interesse, come quello del Progetto Enotria – che puntando alla promozione dei prodotti enologici, in primo luogo di quelli di eccellenza, riguarda numerose realtà territoriali italiane – appare scontata, osiamo dire, la partecipazione al Progetto della Cantina Santadi, sia per la sua storia, sia per il ruolo che essa ha svolto da lunghi decenni nel Sulcis e in Sardegna.

Quando, nel lontano 1976, un giovane presidente assumeva la direzione di una creatura della Riforma fondiaria conosceva perfettamente le risorse delle quali il territorio disponeva, ma era altrettanto consapevole delle situazioni regressive che ne ostacolavano lo sviluppo. Mentre in Italia era iniziato il Rinascimento del vino, di impronta toscana, in Sardegna si piantavano vigneti in zone non vocate, produzioni e vendite venivano finalizzate ai grandi volumi liquidi, i vasi vinari ignoravano le temperature di fermentazione e mal si prestavano ai miglioramenti qualitativi. Come ebbe modo di scrivere proprio colui che ne avviò il salvataggio, il vino sardo non produceva immagine, né strutture operative, né professionalità, né valore aggiunto: una vera sventura.

Occorreva dunque salvare la viticoltura sarda, garantendo i suoi caratteri tradizionali di qualità e tipicità, ma tenendo conto che ormai la domanda del vino, a livello nazionale e internazionale, stava divenendo gradualmente ma irreversibilmente qualitativa. Ciò imponeva la necessità di una riconversione, almeno parziale, verso la produzione del vino da bottiglia ed esigeva quindi un adeguamento generale dei vari reparti produttivi, dal campo alla cantina, dalla commercializzazione alla formazione di entità imprenditoriali in un mondo di concorrenza. Per la verità il Consorzio delle cantine sociali, su sollecitazione del suo presidente,  che non a caso era lo stesso della Cantina di Santadi, fece un tentativo unitario di servirsi dell’esperienza dell’enologo considerato in quel momento il rappresentante più significativo del nuovo corso che l’Italia aveva imboccato, cioè Giacomo Tachis. Però, compiuto qualche importante intervento – come la produzione di alcuni vini in bottiglia, peraltro eccellenti –  i rapporti fra le cantine in breve tempo si indebolirono.

Fu allora che il presidente e i soci della Cantina di Santadi – che, a differenza del filosofo Diogene, ritenevano di avere già trovato “l’uomo” – ebbero il coraggio o la temerarietà di proporre e di convincere Tachis e la struttura imprenditoriale di appartenenza, a concedere, nelle forme ritenute possibili, la sua collaborazione per inserire nella modernità anche una piccola cantina del remoto Sulcis. Era l’anno 1980. La multiforme competenza del “consulente”, la sua genialità creativa, l’adozione del metodo scientifico di valutazione dei risultati hanno dato un impulso fondamentale e credo insostituibile per la rinascita di una delle risorse portanti del terroir sulcitano, cioè la vitivinicoltura. La perla del settore era fuor di dubbio il vitigno Carignano del Sulcis, pianta dalle origini misteriose, ma che non possiamo non definire autoctona, stante la secolare coltivazione nella zona. Tuttavia, nel periodo del quale parliamo, la perla richiamava una figura simile a quella  del nobile decaduto dei romanzi di Grazia Deledda, in possesso solo di un vuoto titolo, piuttosto che il fulgore di una prospera risorsa.

Giacomo Tachis venerava, se così possiamo esprimerci, il Carignano del Sulcis non solo e non tanto per le qualità intrinseche che esso possedeva allo stato solido e liquido, ma soprattutto perché era convinto che ciascuna di tali qualità potesse subire dei miglioramenti significativi. Mentre egli passava dal ruolo di credente a quello operativo di gran sacerdote, imponendo criteri razionali in ogni fase del processo produttivo, avvalendosi in particolare di una inestimabile sensibilità gustativa nelle diverse forme di assemblaggio e nella ricerca dell’equilibrio tra componenti alcoliche e polifenoliche, il nobile prodotto di un tempo non solo ha riacquistato il suo status, ma alcuni dei suoi rampolli sono oggi inseriti nell’aristocrazia enografica europea, e di conseguenza mondiale. Non solo, ma l’intero quadro dei vitigni, e quindi il complesso del terroir sulcitano, è stato arricchito da soggetti importanti, recuperati fra le risorse autoctone o che nel Sulcis hanno trovato terreni particolarmente vocati.

È dunque certamente doveroso festeggiare i risultati raggiunti dal Sulcis col proprio Carignano – e anche, aggiungerei, con gli altri soggetti dell’ampelografia locale – ma credo sia altrettanto doveroso riconoscere, da parte dell’osservatore esterno, il ruolo determinante che, nel perseguire detti successi, è stato svolto dalla Cantina di Santadi sul piano dello sviluppo dell’intero comparto della vitivinicoltura sarda. Il programma di accoglimento della modernità, intrapreso dalla Cantina, man mano che metteva in evidenza i suoi positivi risultati, ha costituito impulso, stimolo e punto di riferimento per molte imprese viticole e vinicole sia del Sulcis che delle altre regioni della Sardegna. Con questo non vogliamo certo né possiamo negare che ci fossero, nel periodo della svolta, aziende private o sociali che già intraprendevano la via dell’imbottigliamento e della commercializzazione del prodotto trasformato. Ma il programma delineato dalla Cantina di Santadi era, se così possiamo dire, sistemico, nel senso che andava dal respiro profondo della terra all’esame olfattivo e gustativo del bevitore smaliziato ed era oggettivamente rivolto all’ampio mondo dei produttori.

La soddisfazione dei festeggiamenti, pur dovuti, non può tuttavia velare l’amarezza per la presa d’atto dell’evento che oggi si consuma con l’abbandono della presidenza della Cantina da parte di Antonello Pilloni. È impensabile delineare con  qualche frase improvvisata una intensa e indefessa attività manageriale e direttiva durata ben 48 anni. Ma sinteticamente possiamo dire che grazie al suo personale impegno l’intero processo organizzativo e attuativo del rinascimento della Cantina è stato da lui governato in tutta la sua complessità. Né questo impegno gli ha impedito di dare anche il proprio contributo, quale presidente del Consorzio delle Cantine, all’ammodernamento dell’intero settore in Sardegna, nell’ottica politica che il progresso di una singola impresa ridonda sempre a vantaggio dell’immagine dell’intero territorio. 

Nel concludere vorrei, in modo emblematico, riportare l’impressione che della Cantina Santadi ha avuto un amico di Genova: ogni volta che vi passo, dice, mi sembra di entrare in un santuario. Un santuario laico, s’intende, dove con ordine e quasi con dedizione si profonde il proprio impegno per la creazione e l’offerta di prodotti di pregio. Una istituzione che certamente custodirà e svilupperà il terroir di appartenenza, che ha ereditato, e alla quale non mancheranno, come era tradizionale per i santuari dell’antica Grecia di Diòniso, i pellegrinaggi dei devoti; una istituzione che, a vantaggio ora del pellegrino moderno, utilizzerà anche, nel migliore dei modi, il Progetto Enotria.

Italo Bussa