Paolo Pili, un sardista realizzatore

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Paolo Pili, un sardista realizzatore

Paolo Pili

I
La storiografia sarda sta cominciando a prestare attenzione ad aspetti della storia della Sardegna contemporanea sinora trascurati. Si può fare l’esempio delle dinamiche di classe all’interno del popolo sardo e della formazione di un ceto “borghese” nel corso del XIX secolo. La vicenda familiare di Paolo Pili, come quella della società di Seneghe in generale, può aiutare a capire alcuni passaggi importanti che si compiono nel secolo e mezzo in cui i sardi assistono a una trasformazione radicale del mondo economico e sociale che erano abituati a conoscere. A livello di microstoria paesana sembra che si possano cogliere meglio i cambiamenti che sinora non sono stati evidenziati nel quadro della storia generale/ istituzionale dell’isola.
Le conseguenze importanti della fine del dominio spagnolo nell’isola sono state sinora sottovalutate. A Seneghe, ad esempio, cambia totalmente nel corso di pochi decenni l’ordine di preminenza delle famiglie. Questo è tanto più sorprendente in quanto non corrisponde ad una trasformazione delle strutture produttive, ancora legate apparentemente all’ugualitarismo del sistema della vidazzone. Famiglie dominanti che di generazione in generazione si erano trasmesse le funzioni di rappresentanza della comunità nei confronti delle istituzioni del Regno e che avevano curato gli interessi del Re e della Chiesa, sembrano esaurire la loro funzione nel giro di pochi decenni. In alcuni casi assistiamo a un vero espatrio verso la Spagna per arruolarsi nell’esercito del Re; come se l’aria fosse diventata irrespirabile nell’ambiente dominato dai nuovi padroni piemontesi. Questo cambiamento si rispecchia in modo più evidente nel ridimensionamento del potere dell’Inquisizione che sino alla fine del Seicento con i suoi Commissari e le sue guardie aveva esercitato un controllo soprattutto sulle dinamiche economiche e sociali delle comunità locali, visto che poco o niente avevano da controllare sul terreno ideologico o religioso.
Attribuire cambiamenti così significativi agli effetti della politica sabauda in Sardegna ci sembra piuttosto riduttivo. Nel corso del XVIII° secolo è tutta l’Europa a conoscere mutamenti epocali. Finiscono le grandi epidemie e con esse l’alternanza malthusiana nella demografia. La popolazione non vedrà più cali drammatici ma da allora in poi conoscerà solo la crescita. A determinare il fenomeno sarebbe soprattutto l’aumento della produzione agricola, determinata da un favorevole andamento climatico e da una rivoluzione produttiva che si diffonde in Europa a partire dall’Inghilterra.
A metà Settecento si delinea già il quadro nuovo in cui sono disposte le nuove figure delle famiglie emergenti a Seneghe. In questi anni nascono i fondatori delle “dinastie” che segneranno la vita del villaggio nei decenni e nei secoli successivi.
Raimondo Pili, il bisnonno di Paolo Pili, è certamente un personaggio eccezionale e non stupisce che possa aver trasmesso uno spirito che porta i componenti della famiglia a volersi distinguere. Nato in una famiglia modesta, le sue potenzialità sono viste e valorizzate da un sacerdote che alla sua morte lo lascerà erede di buona parte dei suoi beni. In età adulta viene qualificato nei documenti come “scrivente”, termine generico che indica una condizione sociale superiore a quella dei compaesani, oltre all’evidente possesso della capacità di leggere e scrivere.
Pili si distingue dalla massa degli scriventi, alla ricerca di uffici pubblici e di incarichi in campo legale, per l’essersi dedicato ad attività pratiche, alla produzione agricola e all’allevamento e soprattutto al commercio di prodotti dell’agricoltura del territorio. Si muove con disinvoltura anche fuori dal paese e sa sfruttare le occasioni offerte dai cambiamenti che si verificano nel Marchesato di Oristano, di cui Seneghe fa parte.
All’attività economica si accompagna la presenza sulla scena pubblica. Dopo l’istituzione dei Consigli comunitativi nel 1771, ci saranno due momenti fondamentali per la storia di Seneghe e della Sardegna che fortunatamente sono ben documentati. Nel 1796 Raimondo Pili presiede la votazione del documento consiliare di sostegno all’azione di Giomaria Angioy che guida i miliziani logudoresi verso Cagliari. Il movimento antifeudale ha portato le comunità del centro e del nord Sardegna a condividere le richieste della cessazione dello sfruttamento da parte di un’aristocrazia inerte e assente. Purtroppo queste richieste in campo economico-sociale vengono respinte, come le altre di carattere politico espresse durante il triennio rivoluzionario.
Il nuovo secolo comincia con una durissima restaurazione da parte dei monarchi piemontesi, fatta di controllo poliziesco e di giustizia sommaria. Chi si oppone scompare dalla scena, i nuovi protagonisti sociali si adeguano e cercano di ricavare il meglio dalla protezione governativa a cui si piegano. Appoggeranno quindi la rivoluzione che avviene nelle campagne con la creazione della “proprietà perfetta” della terra. C’è un momento molto significativo, a questo proposito, nella storia di Seneghe, e qui cade la seconda occasione in cui troviamo protagonista Raimondo Pili. Dopo l’emanazione della legge delle chiudende c’è subito chi cerca di approfittarne. Nel 1828 a Seneghe un segretario comunale chiude con muri di pietra una vasta area con pascoli, bosco, strade, fontane. La popolazione si ribella, sostenuta da una parte del Consiglio Comunale, e distrugge i muri appena costruiti. Le autorità intervengono, mandano un inquirente che fa arrestare e poi condannare a lunghe pene detentive quelli che sono individuati come i promotori del movimento.
Quando l’agitazione era iniziata, a casa di Raimondo Pili si era tenuta una riunione degli esponenti della classe dirigente locale. Ci sono vari uomini di legge, notai, avvocati, e i maggiori proprietari. Qualcuno sostiene il malcontento dei pastori e della parte più povera del paese, danneggiati dalle recinzioni che privatizzano risorse di cui fino a quel momento avevano potuto godere liberamente. Nel corso dell’inchiesta, condotta da un giudice inviato da Cagliari, Raimondo Pili testimonierà di aver respinto decisamente queste osservazioni: la politica del governo era decisa e andare contro la volontà del Re significava esporsi alla sua Giustizia. Anche a Seneghe il ceto dei proprietari maggiori ha deciso di partecipare alla corsa alla terra che i provvedimenti sabaudi scatenano. Raimondo Pili muore pochi anni dopo. Saranno i figli ad impegnarsi in prima linea nella “costruzione” delle chiudende. Per questo devono affrontare la concorrenza delle famiglie di pari grado e ambizioni simili. Nascono così due partiti che si fronteggiano per decenni. Lo scontro, che riguardò tutta la Sardegna, con effetti drammatici e laceranti, avviene sul terreno del confronto fisico con agguati, ferimenti, danneggiamenti di pascoli e animali e, sul terreno politico, attraverso la competizione per il controllo del Consiglio Comunale.
Il confronto tra le due fazioni continuerà sino alla Grande Guerra e conoscerà una mutazione significativa solo con la diffusione anche nei villaggi della politica di massa che a Seneghe arriverà ad opera dei giovani reduci guidati da Paolo Pili ed Antonio Putzolu. I seneghesi sosterranno l’una o l’altra fazione, oppure cercheranno di tenere buone relazioni, di non inimicarsi nessuna delle due. L’una fazione accusa l’altra di egoismo e di indifferenza ai problemi che interessano tutta la comunità. La forza delle due si misura con la capacità di ottenere il sostegno dei rappresentanti del governo nel territorio. Questi dispongono del potere di concedere autorizzazioni e licenze varie e ben presto si muovono in modo discrezionale a seconda del maggiore o minore sostegno ai politici governativi. Una fazione quindi sosterrà la destra storica e l’altra si appoggerà alla sinistra. Non ci vorrà molto perché entrambi acquisiscano con entusiasmo le pratiche trasformistiche.

II
Se non fosse stato per il sardismo, Paolo Pili sarebbe stato comunque un imprenditore agricolo preparato, vivace e attivo, ma probabilmente la sua opera sarebbe stata limitata all’ambito provinciale. E’ stata la politica di massa a cambiare la sua vita e aprirgli le porte della regione e dell’Italia. Dopo gli anni delle elementari in paese, continua gli studi al Collegio dei Nobili di Cagliari. Qui è il caso di ricordare un’altra importante pagina di storia seneghese: Pili e il fratello maggiore Luigi possono frequentare il Collegio grazie alle borse di studio disposte per i suoi discendenti da padre Francesco Ignazio Cadello, un gesuita di famiglia seneghese che era stato chiamato ad insegnare Matematica nell’Università di Cagliari in occasione della riforma boginiana degli studi superiori. Cadello condivideva gli ideali progressisti dei rivoluzionari amici dell’Angioy e puntava sulla diffusione dell’istruzione tra i suoi compaesani. Paolo Pili capì ben presto di essere orientato più per l’attività pratica che non per la carriera giuridica che il fratello Luigi avrebbe portato a compimento laureandosi in Giurisprudenza. Si iscrisse quindi alla Regia Scuola di Viticoltura ed Enologi di recente istituzione. Essa era stata affidata alla cura di un agronomo d’eccezione, Sante Cettolini, che Paolo Pili considererà all’origine della sua formazione intellettuale, etica, ma anche politica, poiché l’agronomo veneto era ben cosciente del ruolo che i periti agrari sardi, provenienti da importanti famiglie di proprietari terrieri, avrebbero potuto avere nella trasformazione economica e sociale delle campagne sarde. Terminato il corso di studi in agraria con risultati brillanti, Paolo Pili torna a Seneghe. Qui lo attende l’azienda familiare in cui si coltivano i cereali e si alleva bestiame di qualità, rinnovato dall’innesto della razza modicana; sarà chiamato a dirigerla e allo stesso tempo si compie la sua maturazione sociale con il matrimonio. A 25 anni è sposato e ha il primo figlio, seguito da tre bambine.
Nel suo inserimento nella società seneghese viene in un certo senso preso per mano da un personaggio a cui rimarrà legato anche durante tutto il periodo del suo protagonismo politico. Sembra non mancare mai alle spalle dei sardi che fanno carriera, entrando a far parte della classe dirigente e ricoprendo cariche di prestigio, lo zio, il parente, che ha acquisito un ruolo rilevante all’interno della Chiesa. Oltre ai Vescovi, ci sono i Canonici, i Rettori, i Vicari. Questi esponenti del clero provinciale vengono subito dopo i Vescovi per condizione economica e prestigio sociale. A Seneghe il Vicario Giovanni Antonio Deriu, chiamato da Oristano a reggere la Parrocchia negli anni Ottanta, ha acquisito nel corso del tempo una discreta proprietà e si dedica con abilità all’attività di imprenditore agricolo. E’ un predicatore apprezzato, in ottimi rapporti con la Curia arcivescovile di Oristano e con i vertici della Chiesa sarda. Paolo Pili sposa la nipote del Vicario, Luisa Deriu, una donna di vivace intelligenza che gli sarà di aiuto e sostegno anche durante la sua esperienza politica.
Le vicende personali di Pili in questi anni hanno sullo sfondo la vicenda drammatica della Grande Guerra. Pili ha la “fortuna” di aver acquisito durante il servizio militare la specializzazione di artigliere di marina. Allo scoppio della guerra viene mandato quindi a La Maddalena e qui starà nei lunghi anni del conflitto. Un privilegio di cui non può essere incolpato, anche se gli avversari politici lo accuseranno di essersi imboscato, lontano dai pericoli delle trincee. I reduci però, i veri eroi che hanno combattuto e rischiato la vita, non coltivano le mitologie guerriere e, quando tornano in Sardegna alla fine della guerra e organizzano il movimento dei combattenti apprezzano persone come lui, dotato di competenze tecniche nel settore più importante dell’economia sarda e di grandi capacità organizzative.
A scoprirle e valorizzarle è l’ideatore primo e mente pensante del movimento dei combattenti e poi del Partito Sardo d’Azione, Camillo Bellieni. E’ infatti Paolo Pili ad essere scelto dopo di lui come secondo Direttore del Partito, con l’approvazione di tutto il gruppo dirigente. Pili ricorderà che tutta l’organizzazione che gli veniva affidata consisteva in un elenco di persone, perlopiù ex combattenti, che costituivano il riferimento elettorale per il partito in ciascuno dei paesi sardi. Non c’è telefono, le automobili sono pochissime, spesso mancano addirittura le strade e bisogna raggiungere i villaggi a cavallo o a piedi.
Pili e Antonio Putzolu, amico e compaesano, nominato responsabile dell’associazione combattenti che rappresenta i soci, spesso analfabeti, nei rapporti con le istituzioni assistenziali, cominciano a creare una struttura organizzativa partendo dal circondario di Oristano, esteso da Macomer al medio Campidano e ai limiti delle Barbagie. Oltre alle sezioni si occupano di creare le Latterie Sociali, luoghi di conferimento del latte prodotto dai pastori, in concorrenza con gli industriali del formaggio continentali.
L’organizzazione sindacale dei produttori, primo passo per una rivoluzione sociale che li dovrebbe portare al potere, costituisce la versione sarda dell’ideologia sindacalista rivoluzionaria diffusasi in alternativa al socialismo ufficiale. Ad essa fanno riferimento gli impazienti la cui aggressività è stata acuita dall’esperienza brutalizzante della guerra ed è molto diffusa tra gli ex combattenti. La proposta di cooperazione indirizzata ai pastori sardi ha successo e le Latterie si formano in diversi paesi della Sardegna centro-occidentale.
I mesi della Direzione del Partito da parte di Pili sono quelli in cui precipita la crisi dello stato liberale e il fascismo punta al potere con la Marcia su Roma. In Sardegna il movimento fascista fatica a prendere piede perché la base combattentistica segue gli ex combattenti sardisti. Esso attecchisce tra studenti e sottoproletari solo nella zona mineraria, dove viene sostenuto e finanziato dai proprietari di miniere, e nelle città maggiori. Per affermarsi nell’isola deve prendere il sopravvento sui sardisti e quindi comincia uno scontro ideale e fisico nelle piazze sarde. I sardisti guidati da Pili e da Lussu non hanno difficoltà a contenere lo squadrismo fascista, anche quando questo è sostenuto da guardie regie e altri sedicenti tutori dell’ordine pubblico.
Paolo Pili lascia la carica di Direttore in occasione del terzo congresso del Partito da lui organizzato negli ultimi giorni dell’ottobre 1922, proprio alla vigilia dell’incarico di Governo concesso a Mussolini dal Re Vittorio Emanuele III. La presa del potere da parte del loro capo scatena le violenze squadriste. Il leader riconosciuto del sardismo non solo cagliaritano, Emilio Lussu, viene ferito e ricoverato in ospedale. Si prospetta uno scontro all’ultimo sangue.

III
L’organizzazione politica sardista ha appena mosso i primi passi esitanti quando si deve confrontare con una situazione difficilissima. Essa si trova anzitutto a dover fare i conti con le proprie contraddizioni. Nel movimento combattentistico c’è la solidarietà tra commilitoni e la condivisione degli umori revanscisti diffusi nel mondo dei reduci. Lussu e compagni sosterranno con convinzione l’esperienza fiumana e punteranno su D’Annunzio come alternativa al fascismo che sembra avviarsi al successo nell’assalto violento al movimento socialista. Le posizioni professate nei congressi sardisti sono simili a quelle di un’estrema sinistra contagiata dal virus del nazionalismo: ci sono repubblicani contrari alla monarchia, ci sono avversari della democrazia parlamentare, considerata la maschera che copre un potere corrotto e abusivo, ci sono nemici del socialismo, considerato troppo materialista e negatore delle idealità nazionali. Da queste posizioni il sardismo fatica a distaccarsi anche quando rivendica l’autonomia dell’isola. Molti sardisti punterebbero direttamente sull’autogoverno, riprendendo una tradizione politica che richiama la rivoluzione antifeudale e antipiemontese, la condanna della “perfetta fusione” e il rimpianto per la perdita del “Regno di Sardegna”.
Ma la linea ufficiale del partito considera la questione nazionale sarda ormai assorbita dalla condivisione degli ideali nazionali italiani: una posizione diversa avrebbe contraddetto lo stesso sacrificio delle decine di migliaia di giovani sardi morti per “Trento e Trieste” durante la Grande Guerra. In realtà non si arriverà mai, neppure nelle pagine di Lussu, a un ripensamento vasto e approfondito dell’esperienza della Guerra dei Sardi. Chi rientra dalla guerra trova la Sardegna in condizioni economiche miserabili e con una subalternità accresciuta.
In questa situazione i sardisti, che a Nuoro hanno rinunciato all’insurrezione per combattere il fascismo e conquistare l’autogoverno, si trovano davanti alla prospettiva di un lungo e logorante confronto con squadre fasciste sempre più forti perché sostenute dalla forza armata dello Stato, mentre le loro file si vanno sempre più assottigliando. Una parte del movimento sardista infatti sottolinea gli elementi di comunanza di origine e impostazione ideale che dovrebbe avvicinarlo ai fascisti. Uno di questi elementi, non tra i minori per importanza, è l’idea che dalla crisi politica e sociale in cui gli stati Europei vivono dopo la guerra si possa uscire solo con governi forti, autoritari, che possano agire mettendo a tacere i contrasti e le opposizioni. A mali estremi, estremi rimedi. Ha dato l’esempio la Russia rivoluzionaria in cui i bolscevichi hanno cancellato subito l’illusione della rappresentanza democratica negando i risultati delle votazioni per l’Assemblea costituente e imponendo la dittatura del Partito Comunista. Il “bisogna fare come in Russia” dei socialisti italiani pesa sull’orizzonte italiano come una minaccia che stenta a concretizzarsi, ma nel frattempo favorisce la reazione delle classi proprietarie minacciate dal pericolo della rivoluzione.
La comunanza delle origini è uno dei temi richiamati quando si arriva alla conclusione che con il fascismo si può cercare un armistizio che chiarisca a quali condizioni il sardismo possa sopravvivere nella nuova situazione. In realtà l’unica prospettiva ammessa da Mussolini è la resa mascherata da fusione tra i due movimenti presenti in Sardegna, il suo e quello dei combattenti sardi. Poiché le masse sono sardiste, si può consentire che siano i dirigenti di quel partito a presiedere e governare.
E’ la situazione che si presenta a Emilio Lussu quando accetta di trattare con il generale Gandolfo, inviato di Mussolini, l’unione delle due esperienze politiche. Il risultato dovrebbe portare Lussu, il cui prestigio continua a dipendere soprattutto dall’esperienza militare, alla guida del partito di governo nell’isola, con la forza garantita da Mussolini e l’autorevolezza e il seguito forniti dai reduci sardisti. Le trattative di Lussu con il generale Gandolfo sembrano essere arrivate a una conclusione positiva, ma tutto si blocca per le resistenze dei fascisti della prima ora, che non vogliono rinunciare a una preminenza a cui credono di avere diritto, e degli aspiranti alleati provenienti dalla classe dirigente liberale. Lussu rinuncia e scrive di un’occasione persa. A questo punto entra in scena Paolo Pili.

IV.

Nell’inverno successivo alla Marcia su Roma Paolo Pili, per la prestanza fisica, oltre che per capacità organizzative, è uno dei capi dei gruppi di resistenza costituiti dai sardisti per affrontare le squadre fasciste nelle piazze e nelle vie delle città di Oristano, di Cagliari e delle cittadine vicine al capoluogo. La direzione del Partito Sardo spetta ai nuoresi: Oggianu e Giacobbe si recano a Roma per trovare con i vertici del fascismo un accordo che ponga fine allo scontro tra i due movimenti. Arriva il generale Gandolfo, ci sono le trattative con Lussu di cui abbiamo parlato. Poi tutto sembra fermarsi.
Ma mentre la confusione regna nelle file sardiste, per la diffusione di notizie contraddittorie, e urge la scadenza dei tempi ristretti concessi per accordi di confluenza di altri gruppi politici nel fascismo, il generale Gandolfo convoca Paolo Pili come rappresentante del movimento dei reduci.
Perché Pili dopo un personaggio della statura di Emilio Lussu? A Gandolfo il nome fu probabilmente suggerito dal gruppo di sardisti che si erano orientati per l’adesione al fascismo subito dopo la marcia su Roma. Erano spesso provenienti da famiglie italiane di impiegati pubblici o imprenditori presenti nell’isola da poche generazioni che vedevano l’autonomia più come un pericolo che non come un’opportunità. E’ da notare che una delle caratteristiche positive del gruppo dirigente sardista è la correttezza nei rapporti personali anche in occasione di duri scontri di idee. Quando Pili e Putzolu accettarono la fusione e divennero due esponenti del fascismo, i dirigenti rimasti nel Partito Sardo ribadirono spesso che non era in discussione la buonafede e le buone intenzioni che stavano alla base di scelte politiche che pure non potevano condividere. E sono i pochi che si oppongono alla fusione, il gruppo di Bellieni e Fancello, i primi ad ammettere che i due seneghesi meritano il massimo rispetto. In molti traspare chiara soddisfazione anche per i successi che riescono ad ottenere.
La fusione del 1923 apparve come la soluzione migliore per uscire dalle difficoltà in cui il Partito Sardo si trovava. Per capire le aspettative che essa conteneva si può ricorrere a chi poi si presentò come il maggiore avversario del “tradimento degli ideali sardisti”: Emilio Lussu in un articolo pubblicato da Il Popolo sardo nella primavera del 1923, lamentando il fallimento delle trattative con Gandolfo e col fascismo sardo ed esponendo in dettaglio le ragioni che rendevano quasi inevitabile la fusione tra sardismo e fascismo in Sardegna, scriveva : …perché il PSdA aderendo al fascismo , ma conservando le sue caratteristiche idealità programmatiche, avrebbe realizzato in dieci anni ciò che nessuno di noi avrebbe mai sognato di realizzare in cinquanta: perché avrebbe attuato il suo sogno di rinnovamento isolano di moralizzazione della vita pubblica: perché con la garanzia dei suoi dirigenti avrebbe condannato e represso ogni violenza, che può essere magnifica pratica rivoluzionaria se espressione di minoranze, ma che diventa odiosa tirannide quando viene da una maggioranza al potere, e sarebbe stata garantita la libertà di pensiero e di propaganda ad ogni minoranza: perché essendo la Sardegna paese essenzialmente di produttori proletari (contadini, piccoli proprietari e pastori) si sarebbero nettamente messi in rilievo i suoi interessi e si sarebbe potuto ottenere finalmente anche quel riscatto che ci sembrava utopistico, del proletariato minerario, le cui condizioni sono avvilenti per qualsiasi nazione civile: perché con forti organizzazioni sindacali avrebbe potuto sostenere in seno al Partito Nazionale magnifiche battaglie e dare nuovi orientamenti: perché avrebbe potuto accelerare quel processo di chiarificazione che presto o tardi dovrà irreversibilmente dividere i pionieri del fascismo rivoluzionario dai monarchici conservatori: perché in altre parole (non l’ho detto ma era implicito) il fascismo sarebbe diventato sardismo.
Una perorazione così dettagliata e convinta, da parte di Lussu, dell’utilità dell’incontro dei due movimenti fascista e sardista rende plausibile la tesi sostenuta da alcuni storici, e da Pili, che sia stato proprio il “capitano Lussu” l’autore dell’idea originaria di superare in questo modo la crisi nata dalla Marcia su Roma con l’idea che “ il fascismo diventi sardismo”. A lui comunque, ai dirigenti del Partito come singoli e riuniti a Congresso, Paolo Pili chiese ripetutamente un consenso per l’operazione di fusione che venne votato dalla grande maggioranza dei sardisti.
Dopo l’accordo i due dirigenti seneghesi si mettono subito all’opera per cercare di realizzare quello che Antonio Gramsci definirà “il tentativo di acclimatare nel fascismo il programma proposto dal movimento sardista”. L’azione di Paolo Pili si può riassumere negli elementi seguenti:
Consolidamento di un partito di contadini e pastori creando sezioni in tutti i paesi sardi. I nomi degli iscritti vengono pubblicati, le sezioni discutono la politica del partito e rinnovano ogni anno i propri dirigenti.
Conquista delle amministrazioni comunali; quelle governate dai sostenitori dei deputati governativi nel Mezzogiorno sin dall’età giolittiana venivano accusate di essere strumento di potere arbitrario e di favoritismi. Salvemini aveva scritto di “Ministero della malavita” a proposito della gestione del potere nel Sud da parte di Giovanni Giolitti. Dopo la Marcia su Roma la maggior parte dei Sindaci sostengono il governo di Mussolini, i Consigli comunali votano elogi servili alla sua persona e tanti decretano la concessione della cittadinanza onoraria. Il fenomeno imitativo si diffonde talmente che da Roma si dovrà porre un freno al moto adulatorio. Pili vanta di aver costretto alle dimissioni molti sindaci corrotti, ma in alcuni casi gli avversari politici resistono con il sostegno dei cittadini che approvano il loro operato.
Intervento nel mondo della produzione introducendo ogni possibile forma di aggiornamento tecnologico compatibile con lo sviluppo produttivo delle campagne sarde; mobilitazione ideale e pratica di contadini e pastori per uno sforzo produttivo e per il sostegno alla nuova politica; inizio di sindacalizzazione dei produttori agricoli.
Sostegno alla cooperazione tra pastori e contadini e sottrazione della produzione agricola in Sardegna al monopolio commerciale gestito da industriali del formaggio e commercianti di grano continentali; dopo la modernizzazione delle Latterie, la creazione della FEDLAC (Federazione delle Latterie Cooperative), di una grande Cremeria sociale a Macomer e della società SILOS per il commercio del grano, Pili affronta il problema dello sbocco di mercato per il formaggio con il viaggio negli Stati Uniti che compie nella primavera del 1926. Contatterà direttamente gli importatori americani del pecorino prodotto in Sardegna, stipulando un contratto vantaggioso con una ditta svizzera che gli procurerà l’ostilità degli importatori italiani.
Creazione di scuole per la formazione di personale specializzato nelle attività artigiane e nei vari settori che verranno man mano modernizzati. Si inizia con la creazione della Scuola d’Arti Applicate di Oristano, dove vengono chiamati a insegnare alcuni tra i maggiori artisti sardi, alcuni di notoria fede antifascista.
La presenza attiva di Paolo Pili in tutti i settori della vita economica della Provincia di Cagliari si trasforma in incarico istituzionale nel 1926 quando le Camere di Commercio diventano per legge Consigli Provinciali dell’Economia Nazionale e a Pili viene affidato l’incarico di Commissario. Guiderà la nuova istituzione sino alla cessazione dalla carica politica. Destinerà la retribuzione assegnatagli per l’incarico ricoperto all’acquisto di un’opera d’arte di uno scultore sardo ancora oggi conservata alla Camera di Commercio di Cagliari.
Il progetto di trasformazione dell’economia e della società sarda ha modo di arricchirsi negli anni di gestione del potere e arriva a una definizione ultima nel congresso del Partito tenuto a Cagliari nel gennaio 1926. Sono giorni frenetici in cui con le celebrazioni oristanesi in onore di Paolo Pili si assiste in primo luogo al tentativo di consacrare una leadership politica sarda, parallela e non subordinata a quella di Mussolini. Lo slogan che celebra Pili come “il Duce di una Sardegna nuova” si può considerare una manifestazione di sardismo adeguato ai tempi. Le conseguenze saranno più negative che positive: accanto alla creazione di un mito destinato a durare nelle campagne sarde, ci sarà “l’invidia della medaglia” all’interno del gruppo dirigente che lo affianca. Mentre si prepara il viaggio negli Stati Uniti, Pili tiene comizi nei vari distretti della Provincia, per tenere alta la mobilitazione e il sostegno delle masse alla sua azione. Si arriva infine al Congresso. Il programma esposto da Antonio Putzolu è un vero progetto di sviluppo di tutti i settori produttivi che parte dal basso, dal coinvolgimento e dalla partecipazione dei protagonisti della vita agricola. Il miracolo del mettere insieme i piccoli proprietari, che costituiscono l’elemento portante dell’agricoltura e della pastorizia sarda, sembra compiuto. Se i produttori vengono chiamati a collaborare innovando i modi di produzione, i loro figli devono prepararsi a un salto culturale acquisendo le conoscenze che li renderanno capaci di portare avanti le innovazioni necessarie al mondo produttivo sardo.
Se il progetto nasce dall’elaborazione sardista, esso però si fonda non sulla coscienza matura di un popolo e sulla sua volontà di libertà e autogoverno, ma ancora una volta sul sostegno del Governo centrale, stavolta incarnato da Mussolini. Ciò che egli ha concesso quando gli sembrava opportuno, viene negato quando l’azione di Pili arriva a toccare interessi economici consolidati e ad assumere aspetti di autonomia di azione non tollerabili per una concezione autoritaria. La parabola del sardofascismo è brevissima, va dalla primavera del 1923 all’autunno del 1927. In questi pochi anni si realizza più di quanto non si fosse realizzato in decenni grazie all’intelligenza e alla passione dei giovani dirigenti del movimento sardista entrati nel PNF.
Con la sua azione Paolo Pili ha mostrato la strada giusta per una rinascita della Sardegna che partisse dalla valorizzazione delle sue risorse naturali e produttive e soprattutto da quelle delle capacità delle sue donne e dei suoi uomini. Purtroppo è passato solo un anno dalla fondazione del Partito alla marcia su Roma. La storia dell’Italia moderna è piombata sulla vita dei sardi con le sue contraddizioni e i suoi folli progetti di protagonismo nazionale. Dopo la morte di diecine di migliaia di giovani sardi nelle trincee della grande Guerra il fascismo avrebbe portato ulteriore subalternità politica economica e sociale e passi decisivi verso la distruzione dell’identità culturale dei sardi.

Mario Cubeddu